Risarcimento per la perdita della vita:
Una sentenza storica

Nella lettera sulla felicità diretta a Meneceo, Epicuro sosteneva che morte non era nulla per l’uomo, perché quando l’uomo esiste non c’è lei e viceversa: «[…] quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci […]»

Per molti anni la tesi della giurisprudenza è stata proprio questa, e per l’effetto veniva costantemente negato il diritto risarcitorio per la perdita della vita, inteso come diritto risarcitorio che dal deceduto viene trasmesso iure successionis  agli eredi.

Si sanciva cioè che i diritti assoluti primari alla salute e alla vita sono distinti, e la lesione dell’integrità fisica con esito letale non può considerarsi la più grave forma possibile della lesione alla salute perché la tutela di questo bene implica che il soggetto leso resti in vita menomato, mentre se la persona offesa muore in conseguenza delle lesioni senza una fase di malattia la morte impedisce che la lesione del bene giuridico della salute sia risarcibile per colui che non è più in vita. Pertanto va esclusa la risarcibilità del danno c.d. tanatologico iure hareditatis.

E ciò nonostante la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Artt. 62 e 63) e la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (Art. 2), direttamente vigenti nel nostro ordinamento, prevedano espressamente l’inviolabilità del diritto alla vita.

Sennonché una parte della dottrina ha sempre avversato tale orientamento, lamentando in primis l’inosservanza dei precetti transnazionali e, in ogni caso, che il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento non fosse del tutto rispondente all’effettivo sentire sociale nell’attuale momento storico, atteso che era assurdo riconoscere la risarcibilità di lesioni anche lievi all’integrità psicofisica e non anche quella relativa alla lesione massima, la vita appunto, bene supremo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile e che innegabilmente si configura come un prius rispetto al posterius della salute.

E la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1361/2014, ha finalmente validato un principio di civiltà giuridica, validando  cioè la teoria che vuole che la vittima acquisisca il diritto al risarcimento per la perdita della vita subìta, nel momento stesso in cui si verifica la lesione mortale e quindi  anche in caso di morte immediata o istantanea, in deroga al principio dell’irrisarcibilità del danno evento e che  tale diritto, avendo poi natura compensativa, è trasmissibile iure hereditatis.

Una sentenza che, a nostro avviso, è peraltro un chiaro indici di contrarietà rispetto ai rumors di questo periodo secondo i quali il  Governo, sulla spinta della Lobby assicurativa, vorrebbe intervenire sul tema in questione limitando il risarcimento del danno da morte per i congiunti in sede di  attuazione dell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni Private, come non gli sarebbe in comunque consentito posto che tale norma disciplina il caso delle lesioni personali e, quindi, non contempla in alcun modo  l’ipotesi dei danni da morte.

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