Capitalizzazione trimestrale degli interessi ed anatocismo bancario

E’ ormai principio consolidato quello per cui la capitalizzazione trimestrale degli interessi, a seguito della nota sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 21095/2004, deve ritenersi illegittima perché contrastante con il divieto di anatocismo previsto dall’art. 1283 c.c.

La Suprema Corte, con la decisione di cui sopra, ha statuito l’illegittimità del fenomeno della capitalizzazione trimestrale degli interessi in materia bancaria, in quanto prassi contraria alla norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c. e non trasfusa in un uso normativo, con conseguente nullità ex tunc (giusto il disposto degli artt. 1283, 1284, 1419 c.c.) delle clausole negoziali che dispongono la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, anche in relazione ai periodi anteriori al noto mutamento giurisprudenziale avutosi già nel 1999 (in senso conforme, precedentemente all’intervento delle Sezioni Unite, si vedano Cass. Civ. 2593/2003, Cass. Civ. n. 17813/2002; Cass. Civ. n. 8442/2002; Cass. Civ. n. 4490/2002, Corte Cost. n. 425/2000; per la giurisprudenza di merito si vedano, fra le tante, Tribunale di Torino 7.1.2003; Tribunale di Napoli 27.11.2002, Tribunale di Roma 8.11.2002; Corte d’Appello di L’Aquila 11.6.2002).

E’ peraltro interessante affrontare il problema delle conseguenze di tale declaratoria di illegittimità, al fine di stabilire se debba essere esclusa in radice qualsiasi capitalizzazione, ovvero se possa individuarsi una diversa frequenza di legittima capitalizzazione degli interessi.

Una parte della giurisprudenza di meritò si è espressa più volte in favore del riconoscimento, pur in presenza di una clausola anatocistica nulla ex art. 1283 c.c., della capitalizzazione annuale degli interessi, principio che – si sostiene da parte di taluni interpreti – sarebbe in ogni caso ricavabile dal sistema normativo dettato per le obbligazioni pecuniarie, nel cui alveo e nella cui disciplina sarebbero pienamente riconducibili anche le obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento degli interessi.

Tuttavia, la tesi che rifiuta una pur meno gravosa capitalizzazione degli interessi (quindi anche quella annuale) sembra, a ben vedere, più coerente con una scrupolosa lettura delle norme.

A tale conclusione si perviene se si pone mente, da un lato, alla natura imperativa della disciplina dettata dall’art. 1283 c.c. in tema di interessi anatocistici e, dall’altro, alla specialità dell’obbligazione avente ad oggetto il pagamento degli interessi rispetto al genus delle obbligazioni pecuniarie.

Si tenga presente, d’altro canto, che la stessa Suprema Corte (cfr. sentenza Sezioni Unite n. 9653 del 17.7.2001) ha assunto una posizione del tutto inconciliabile con la tesi favorevole ad ammettere la capitalizzazione annuale in luogo di quella trimestrale.

Con la predetta decisione, la Suprema Corte ha precisato che “il debito di interessi, pur concretandosi nel pagamento di una somma di denaro, non si configura come un’obbligazione pecuniaria qualsiasi, ma presenta connotati specifici, sia per il carattere di accessorietà rispetto all’obbligazione relativa al capitale, sia per la funzione (genericamente remuneratoria) che gli interessi rivestono, sia per la disciplina prevista dalla legge proprio in relazione agli interessi scaduti”.

Per parafrasare la decisione della Suprema Corte, si potrebbe dunque asserire che gli interessi scaduti produrrebbero automaticamente altri interessi solo se fossero equiparati in toto ad una qualsiasi altra obbligazione pecuniaria.

Ma tale conseguenza, argomenta la Corte, è esclusa per quanto disposto dall’art. 1283 c.c. (dettato a tutela del debitore ed applicabile per ogni specie di interessi, quindi anche per quelli moratori), alla stregua del quale, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi ulteriori solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.

Inoltre, non sarebbe conforme al principio di ragionevolezza un approdo ermeneutico che, in presenza di obbligazioni aventi natura e contenuto identici (pagamento di interessi), rendesse applicabile l’art. 1224 c.c. al debitore che ha già pagato il debito principale, non invece al debitore totalmente inadempiente, convenuto per il pagamento del capitale e degli interessi.

Pertanto il debito per interessi (anche quando sia stata adempiuta l’obbligazione principale) non si configura come una qualsiasi obbligazione pecuniaria dalla quale deriva il diritto agli ulteriori interessi dalla costituzione in mora, nonché al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma 2 c.c., ma resta soggetto alla regola dell’anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., derogabile soltanto dagli usi contrari ed applicabile a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura (per il conseguente corollario per cui gli interessi non perdono la loro natura, ai fini della loro eventuale capitalizzazione, per effetto della loro inclusione nei ratei dia ammortamento dei mutui, si veda Cass. Civ. n. 2593/2003, in Dir. e prat. soc. 2003, 8 62, secondo cui “in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sull’intera somma, integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 c.c. Con riferimento alla disciplina dell’art. 1283 c.c., usi contrari non avrebbero potuto formarsi successivamente all’entrata in vigore del codice civile, perché la natura della norma stessa, di carattere imperativo e quindi impeditiva del riconoscimento di pattuizioni e di comportamenti non conformi alla disciplina positiva esistente, impediva la realizzazione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell’uso normativo. Anteriormente al 1942, non esistevano usi che, nel campo specifico del mutuo bancario, consentivano l’anatocismo oltre i limiti previsti dall’art. 1283 c.c. e, particolarmente, una pattuizione concernente l’applicazione degli interessi di mora “sull’intero importo delle rate scadute e non pagate” di mutui e finanziamenti estinguibili secondo piani di ammortamento”).

L’autorevolezza e la persuasività di siffatto precedente ha orientato nello stesso senso la giurisprudenza di legittimità successiva (Cass. Civ. n. 2439/2002; Cass. Civ. n. 2771/2002 e Cass. Civ. n. 4133/2003).

Dall’esame dei richiamati principi di diritto, come riportati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, da coordinarsi con le altre decisioni in materia bancaria, non può che derivare la conclusione per cui l’art. 1283 c.c. è norma imperativa e di natura eccezionale che ammette la capitalizzazione soltanto a determinate condizioni, prevedendo cioè che gli interessi scaduti possano a loro volta produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale (sempre che essa sia rivolta in modo specifico ad ottenere il pagamento degli interessi sugli interessi scaduti, non essendo sufficiente a tal fine la domanda dei soli interessi principali: Cass. Civ. n. 5271/2002, n. 7407/2001 e 8377/2000), o per effetto di una convenzione fra le parti successiva alla scadenza degli stessi, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno un semestre, salvo usi contrari.

Tale regola risponde allo scopo precipuo di prevenire fenomeni usurari e di consentire al debitore di conoscere i maggiori costi derivanti dal suo inadempimento e, in ogni caso, allo scopo di calcolare, al momento della stipula della convenzione, l’esatto ammontare del suo debito. Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira inoltre ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per poter accedere al credito (in tal senso, Cass. Civ. n. 2593/2003; Appello Milano 28.1.2003).

La disposizione limitativa di cui all’art. 1283 c.c. “fonderebbe la propria ratio nella natura del debito di interessi e nel particolare sfavore con cui il legislatore, nel solco di una tradizione di avversità ad un fenomeno percepito quale forma di esercizio dell’usura, ha inteso considerare la capitalizzazione degli interessi, in coerenza con le altre restrizioni previste per gli interessi superiori a quelli legali” (così testualmente Cass. Civ. 2381/1994).

Ora, atteso che la contrarietà alla norma imperativa di cui all’art. 1283 c.c. coinvolge l’intero contenuto della clausola (non solo la parte di essa relativa alla periodicità della capitalizzazione), è la pattuizione in contratto dell’anatocismo ad essere nulla: non vi è possibilità di sostituzione legale o di inserzione automatica di clausole prevedenti capitalizzazioni di diversa periodicità, in quanto l’anatocismo è consentito dal sistema con una norma, si ribadisce, di portata eccezionale e derogabile soltanto in presenza di determinate condizioni, in difetto delle quali esso rimane giuridicamente non pattuito tra le stesse.

La caducazione della clausola in virtù della quale la banca è autorizzata a capitalizzare gli interessi a debito con cadenza trimestrale lascia dietro sé un vuoto che l’interprete non ha né la necessità né, soprattutto, la facoltà di colmare, con le conseguenze del caso.

Va tuttavia chiarita la portata del decisum delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la quale ha stabilito la nullità – per contrasto con l’art. 1283 c.c. – delle clausole di addebito trimestrale degli interessi dovuti dal correntista nell’ambito di rapporti bancari regolati in conto corrente relativamente al periodo anteriore all’entrata in vigore della deliberazione del C.I.C.R. 9 febbraio 2000 (“Nell’ambito dei rapporti regolati in conto corrente, relativamente al periodo antecedente all’entrata in vigore della deliberazione del C.I.C.R. 9 febbraio 2000, sono nulle, in quanto contrastanti con il disposto dell’art. 1283 c.c., le clausole di addebito trimestrale degli interessi dovuti dal correntista”; Cass. Civ. Sez. Unite n. 21095/2004).

Sotto tale profilo, l’art. 6 della Delibera del C.I.C.R. 9.2.2000 (le cui disposizioni sono entrate in vigore il 22.4.2000), recante “trasparenza contrattuale”, dispone che “i contratti relativi alla raccolta del risparmio e di esercizio del credito stipulati dopo l’entrata in vigore della presente delibera indicano la periodicità di capitalizzazione degli interessi e il tasso di interesse applicato”.

La citata norma dispone inoltre che “nei casi in cui è prevista una capitalizzazione intrannuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione. Le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto”.

Il che significa, con tutta evidenza, che successivamente alla data del 22.4.2000 è possibile contrattualmente stabilire la periodicità di capitalizzazione degli interessi stessi ed il tasso applicato.

Quanto sopra appare ulteriormente suffragato dal disposto del successivo art. 7 della citata delibera che ha disposto che le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui si tratta devono essere adeguate alle disposizioni in essa contenute entro il 30 giugno 2000 ed i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1 luglio 2000.

Quanto alla commissione di massimo scoperto, essa rappresenta un elemento retributivo ulteriore rispetto agli interessi.

Pare ininfluente stabilire, una volta verificata la sua previsione contrattuale, se essa rappresenti un costo connesso all’elargizione del credito bancario oggetto del fido ovvero se essa assuma una funzione remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determinata somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo.

Al riguardo si rileva che, come efficacemente precisato dalla Suprema Corte “se la commissione di massimo scoperto è un accessorio che si aggiunge agli interessi passivi – come potrebbe inferirsi anche dall’esser conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato – che solitamente è trimestrale – e dalla pattuizione della sua capitalizzazione trimestrale, come per gli interessi passivi, o ha una funzione remunerativa dell’obbligo della banca di tenere a disposizione dell’accreditato una determina somma per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo utilizzo come sembra preferibile ritenere anche alla luce della circolare della Banca d’Italia del primo ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c. d. tasso di soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve esser computata ai fini della rilevazione dell’interesse globale di cui alla legge 7 marzo 1996 n. 108, ed allora dovrebbe esser conteggiata alla chiusura definitiva del conto. Nell’un caso e nell’altro non è comunque dovuta la capitalizzazione trimestrale perché, se la natura della commissione di massimo scoperto è assimilabile a quella degli interessi passivi, le clausole anatocistiche, pattuite nel regime anteriore all’entrata in vigore della legge 154-1992, sono nulle secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, se invece è un corrispettivo autonomo dagli interessi, non è ad esso estensibile la disciplina dell’anatocismo, prevista dall’art. 1283 cod. civ. espressamente per gli interessi scaduti” (così Cass. Civ. n. 11772 del 6.8.2002).

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